La correlazione tra la crescita egli assets delle banche centrali e gli indici azionari americani è evidente graficamente. Se la Fed dovesse sgonfiare il proprio bilancio ci sarebbe il serio rischio di vedere lo SP500 tornare a 2.600 punti, livello pre politiche espansive da covid.
Ovviamente i numeri relativi alle banche centrali devono essere proporzionati ad altre grandezze quali il pil e anche la popolazione volendo. La Boj è quella più esposta in termini di pil mentre a livello nominale la Bce e la Fed sono arrivate su valori nominali simili anche se a Francoforte hanno iniziato a sgonfiare il bilancio mentre in America ancora no, si compra ancora tempo pericolosamente.
Un dato che non emerge con evidenza è il peso delle riserve, in valuta e oro, delle banche centrali, dato che vede la Cina capolista assoluta sia in termini nominali che di bilancio: 3.247 mld su 5.700, ossia il 57% circa delle attività della Pboc. Come si legge sul sito della Bce “La BCE detiene riserve ufficiali che le assicurano sufficiente liquidità per condurre, se necessario operazioni in valuta estera…Gli obiettivi di gestione delle riserve ufficiali della BCE sono in ordine di importanza: liquidità, sicurezza e rendimento.” Nel caso europeo si registrano 1.135 mld di riserve su 8.564 mld di bilancio, un misero 13% circa, rispetto all’8% della Fed ed il 27% del Giappone. Ovviamente, in linea di massima, più la valuta è forte e meno esigenze di riserve accumulate dovrebbe avere la banca centrale di quello stato.
Attenzione però, considerando gli swap in dollari tra Fed e altre banche centrali, nel caso del covid lo sforzo è stato minore rispetto a quello della crisi dei subprime che vide il collasso di Lehman Brothers. Nel 2009, ai bottom del mercato azionario, si arrivò quasi 600 mld di dollari, con il covid si è arrivati ad un massimo di 450 mld. Nel 2008 la maggior parte del flusso fu verso l’Europa, nel 2020 verso il Giappone. Nell’ultimo mese abbiamo visto interventi importanti della Boj sul cambio con il dollaro, della Boe per salvare i fondi pensione inglesi e della SNB con swap con la Fed a livelli record, forse per salvare Credit Suisse.
La Cina ha sempre provveduto da sola e le politiche fiscali e monetarie espansive nella crisi del 2008 arrivarono ad oltre un +30% di stimoli monetari in termini di pil e di 3% per quanto concerne le quelle fiscali. Con il covid sono state invece il 15% e l’2,7% rispettivamente. Nel 2022 ancora devono partire stimoli ingenti che potrebbero invertire sia la discesa dell’azionario cinese che la crescita economica (anche a livello mondiale) in declino.
Ma cosa c’entra il cambio? Il dollaro, rispetto allo yuan, nel momento in cui sono partiti gli stimoli fiscali e monetari è sempre sceso, come durante la pandemia. Oggi il cambio è tornato sui valori del 2008, per vedere la fine della recessione e un relativo bottom sugli indici azionari è necessario un rafforzamento dello yuan.
Considerando le alte riserve della banca centrale cinese, che ha uno dei rapporti più bassi in termini di asset/pil di 33,2 percentuale, insieme ai possibili sforzi di politica fiscale, è bene fare attenzione all’andamento dello yuan e ad eventuali consistenti swap tra banche centrali (la Svizzera ha già iniziato) che indebolirebbero il dollaro e darebbero il via ad un probabile nuovo trend rialzista dell’equity. In yuan we trust!
Guido Gennaccari